Domande e risposte sulla soluzione delle crisi delle quattro banche poste in "risoluzione"

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Ci sono stati ritardi nel porre le banche in amministrazione straordinaria?

La Banca d’Italia esercita l’azione di vigilanza nel continuo, sulla base dei poteri che l’ordinamento le conferisce. I presupposti per porre una banca in amministrazione straordinaria sono fissati nel Testo Unico Bancario (TUB), che fa riferimento a gravi perdite patrimoniali e/o a gravi irregolarità: solo in presenza di tali presupposti la Banca d’Italia può sottoporre le banche ad amministrazione straordinaria. Il margine di discrezionalità di tale decisione è assai ristretto. Un’azione troppo tempestiva potrebbe indurre a commissariare un istituto ancora in grado di proseguire la propria attività. Se lo facesse, la Banca d’Italia opererebbe al di fuori dei poteri previsti dall’ordinamento.

Perché si è scelto di mettere in risoluzione le quattro banche? Non c’erano soluzioni alternative che avrebbero potuto essere utilizzate per tutelare i portatori dei titoli penalizzati?

Nei mesi precedenti l’adozione del decreto di recepimento della direttiva europea sul risanamento e la risoluzione della banche (Bank Recovery and Resolution Directive, BRRD), entrato in vigore il 16 novembre 2015, le Autorità italiane hanno preso in esame soluzioni della crisi delle quattro banche basate sull’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD), che non sono state ritenute compatibili con la disciplina sugli aiuti di Stato dalla Commissione europea. La Commissione ritiene che l’intervento del FITD si configuri quale aiuto di Stato sebbene esso sia finanziato interamente dalle banche, senza intervento di fondi pubblici. Se l’intervento del FITD non fosse stato configurato come aiuto di Stato, l’operazione di salvataggio delle quattro banche da parte del FITD non avrebbe comportato il sacrificio dei diritti dei creditori subordinati e sarebbe avvenuta valutando le sofferenze delle banche a valori di bilancio. Essendo invece considerato aiuto di Stato, l’intervento del FITD avrebbe imposto il sacrificio, oltre che dei diritti degli azionisti, anche di quelli dei creditori subordinati, come previsto dalla disciplina europea.

L’altra alternativa era una liquidazione coatta amministrativa. In tal caso, le azioni e i crediti subordinati – i primi ad assorbire le perdite nella gerarchia fallimentare – avrebbero pure subito la svalutazione integrale del loro valore, dato l’ammontare delle perdite. Inoltre, la procedura di liquidazione, per sua natura, distrugge ricchezza in quanto è basata non sulla conservazione delle attività, ma sulla loro liquidazione attraverso azioni di recupero o cessioni sul mercato in tempi brevi e perciò a prezzi necessariamente molto bassi. Questo avrebbe quasi sicuramente intaccato i diritti anche dei creditori non subordinati, compresi i depositi non assicurati, leso le funzioni critiche essenziali (ad esempio, il credito alle imprese e il sistema dei pagamenti), causato la perdita di posti di lavoro. In definitiva, le perdite sarebbero risultate superiori rispetto a quelle emerse con la risoluzione.

Una terza soluzione, prospettata dalla Commissione europea, era l’intervento volontario da parte delle banche italiane. Come si dirà più avanti, anche questo intervento non è risultato praticabile.

La soluzione adottata il 22 novembre – certamente non indolore – è quella che, considerati i vincoli e le norme esistenti, ha consentito di minimizzare l’onere dell’intervento, salvaguardando al meglio i diritti dei depositanti e dei creditori.

Perché le quattro banche sono state salvate proprio a novembre e in quel modo?

Solo dopo l’entrata in vigore, il 16 novembre 2015, del D. Lgs. 180/2015, che ha dato attuazione in Italia alla BRRD, è stato possibile applicare strumenti fino ad allora non previsti dal quadro normativo italiano, quali la banca ponte (bridge bank) e la società veicolo per la gestione di attività (bad bank), e soprattutto ricorrere al Fondo di Risoluzione finanziato dalle banche, il cui intervento ha permesso di colmare le perdite non poste a carico di azionisti e creditori  subordinati. Le perdite imposte agli azionisti e ai creditori subordinati ammontano infatti a circa 870 milioni ma ulteriori perdite pari a circa 1.700 milioni sono state assorbite dal Fondo di Risoluzione; questo ha consentito di evitare il sacrificio di molti altri creditori, in particolare degli obbligazionisti e degli altri creditori non subordinati, come sarebbe avvenuto se la risoluzione avesse avuto luogo dopo il 1° gennaio 2016 o se si fosse avviata, in alternativa, la liquidazione coatta amministrativa delle banche.

In mancanza di un intervento del Fondo di Risoluzione, finanziato dal sistema bancario, il costo sarebbe quindi stato molto maggiore per i creditori e sarebbe ricaduto su un numero di soggetti (investitori, dipendenti) molto più ampio.

Perché la Commissione europea ha considerato l’intervento del FITD come di natura pubblica e quindi incompatibile con le regole del mercato interno in materia di aiuti di Stato?

La Comunicazione della Commissione europea dell’agosto 2013 sugli aiuti di Stato al settore bancario individua, fra le misure che possono costituire aiuti di Stato, anche gli interventi diversi dal rimborso dei depositanti effettuati da un sistema di garanzia dei depositi per ristrutturare una banca “nella misura in cui sono soggetti al controllo dello Stato e la decisione relativa all’utilizzo dei fondi è imputabile allo Stato”. In particolare, in questo caso, la Commissione richiede che (i) qualsiasi aiuto pubblico a una banca sia esaminato ed approvato dalla Commissione medesima in base alle regole procedurali vigenti e che (ii) azionisti e creditori subordinati sopportino parte degli oneri per il risanamento della banca in crisi mediante la riduzione del valore nominale dei loro titoli o la loro conversione in capitale (cosiddetto burden sharing).

Come comunicato nel caso della Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas), anche se il FITD utilizza solamente risorse fornite dal sistema bancario, secondo la Commissione europea esso adempie a una funzione pubblica e pertanto il suo intervento costituisce un aiuto di Stato.  La Commissione europea – attraverso un’interlocuzione con il Governo italiano – ha confermato che agli interventi del FITD si sarebbe applicata in pieno la disciplina sugli aiuti di Stato anche nel caso delle quattro banche in crisi poste poi in risoluzione. Ciò avrebbe comportato, anche in questo caso, l’applicazione del burden sharing di azionisti e creditori subordinati. Il ricorso all’intervento del FITD nelle quattro banche anche in presenza di parere negativo della Commissione europea avrebbe potuto comportare l’imposizione del rispristino della situazione ex ante, cioè l’integrale restituzione delle somme fornite dal Fondo alle quattro banche, con la probabile attivazione, nel corso del 2016, del bail-in, il quale comporta la riduzione e/o conversione anche dei crediti non subordinati.

Secondo le autorità italiane, invece, l’intervento del FITD non può essere assimilato a un aiuto di Stato vietato dai Trattati europei. In primo luogo, le risorse del FITD provengono dal sistema bancario, quindi hanno natura privata. Inoltre il Fondo ha autonomia decisionale e la possibilità di effettuare interventi alternativi al rimborso dei depositanti è esplicitamente contemplata dalla direttiva europea sugli schemi di garanzia dei depositi (direttiva 2014/49/UE).

In ogni caso, si è utilizzato il Fondo di Risoluzione perché la possibilità di effettuare il burden sharing si è resa disponibile soltanto a seguito del recepimento della BRRD, la quale individua il Fondo di Risoluzione come uno degli strumenti per conseguire gli obiettivi della risoluzione; non è stato possibile utilizzare il FITD, perché, sempre ai sensi della BRRD, ne è vietato l’utilizzo per interventi a favore di banche in risoluzione diversi dal rimborso dei depositi protetti.

Perché per le quattro banche non è stato possibile realizzare un intervento volontario da parte del sistema bancario analogo a quello ora attivato per Tercas?

Il FITD ha avviato la costituzione di uno schema - parallelo a quello obbligatorio - aperto alla partecipazione "volontaria" delle banche, al fine di risolvere ex post il caso Tercas. I lavori di costituzione dello schema sono iniziati il 22 novembre 2015 e sono terminati il 25 gennaio 2016. Lo schema è dotato di una capacità di intervento di 300 milioni, all’incirca pari a quanto già trasferito dal FITD a beneficio di Tercas e ora da restituire al FITD stesso in base a quanto richiesto dalla comunicazione della Commissione europea. Per le quattro banche poi poste in risoluzione non è stato possibile al sistema bancario raccogliere al suo interno il necessario consenso a mettere insieme una somma molto maggiore.

Perché azioni e obbligazioni subordinate delle quattro banche sono state azzerate e non limate o convertite in azioni dei nuovi istituti?

In base alla BRRD e alla normativa italiana, nel caso di una procedura di risoluzione l’entità della riduzione di valore e l’eventuale conversione delle obbligazioni subordinate in azioni della banca non dipendono da scelte discrezionali dell’Autorità di Risoluzione, ma dall’entità delle perdite, determinata in base a precise modalità e criteri di valutazione stabiliti dalla BRRD.

Secondo quanto previsto dalla normativa, infatti:

  • l’Autorità di Risoluzione deve, innanzitutto, ridurre il valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate finché ci sono perdite della banca da coprire; ne consegue che se le perdite superano quel valore, esso dovrà essere azzerato;
  • solo se le perdite sono inferiori al valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate, l’Autorità di Risoluzione prima riduce, in sequenza, il valore di azioni e obbligazioni subordinate nella misura necessaria a coprire le perdite e, a seguire, dispone la conversione del valore residuo delle obbligazioni subordinate in azioni della banca, nei limiti necessari per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali. Nel caso delle quattro banche messe in risoluzione in novembre, le perdite di ciascuna banca erano superiori al valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate; per questa ragione le azioni e le obbligazioni subordinate sono state sacrificate per l’intero ammontare del loro valore. Le perdite ulteriori sono state coperte dal Fondo di Risoluzione.

Che differenza c’è tra burden sharing e bail-in?

La normativa in vigore fino alla fine del 2015 permetteva l’applicazione del cosiddetto burden sharing: in caso di dissesto di una banca era previsto che prima del coinvolgimento di fondi pubblici venisse attuata la riduzione del valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate (o la conversione in capitale di queste ultime).

Dal primo gennaio di quest’anno è invece entrato in vigore il cosiddetto bail-in, che prima del  coinvolgimento del Fondo di Risoluzione (o più in generale dei fondi pubblici) prevede la riduzione del valore nominale non solo delle azioni e delle obbligazioni subordinate, ma anche dei titoli di debito più senior, quali le obbligazioni ordinarie e i depositi di importo superiore ai 100.000 euro. Il bail-in prevede il rispetto della gerarchia concorsuale: di conseguenza, esso viene applicato prima alle azioni, poi agli altri titoli di capitale e ai debiti subordinati, quindi ai debiti chirografari, incluse le obbligazioni ordinarie emesse dalla banca in crisi. I depositi di valore pari o inferiore a 100.000 euro sono sempre esclusi dal bail-in e sono coperti dai sistemi di garanzia dei depositi; i depositi di importo superiore possono essere interessati dal bail-in solo per la porzione eccedente la soglia di 100.000 euro e, se detenuti da persone fisiche e piccole o medie imprese, solo se tutte le altre passività assoggettabili a bail-in non sono sufficienti, mentre se detenuti da altre controparti sono considerati debiti chirografari e, quindi, si collocano allo stesso livello gerarchico delle obbligazioni ordinarie. Tuttavia, dal 1° gennaio 2019, anche questi ultimi depositi eccedenti la soglia di 100.000 euro beneficeranno di un trattamento preferenziale e potranno subire l’applicazione del bail-in solo dopo le obbligazioni ordinarie e gli altri debiti chirografari (ma, in ogni caso, prima dei depositi di persone fisiche e piccole e medie imprese eccedenti i 100.000 euro).

È vero che la BRRD, nella parte in cui colpisce investitori che al momento dell’acquisto delle obbligazioni subordinate non potevano in alcun modo conoscere i rischi insiti in tali strumenti, è contraria all’art. 47 della Costituzione italiana?

Occorre innanzi tutto ribadire che le perdite subite a seguito della risoluzione non sono state superiori a quelle che i creditori subordinati avrebbero subito in caso di liquidazione coatta amministrativa.

Per quanto riguarda l’applicabilità del bail-in anche agli strumenti già in circolazione, stabilita dalla Direttiva stessa e conseguentemente dalla relativa disciplina di recepimento del d.lgs. n. 180/2015, eventuali valutazioni di incostituzionalità spettano ovviamente alla Corte Costituzionale.

Come sono stati identificati i crediti in sofferenza che sono poi confluiti nella bad bank?

Le sofferenze di cui è prevista la cessione nei provvedimenti di risoluzione sono quelle ‎che, già nel corso dell’amministrazione straordinaria, erano state iscritte a bilancio come tali, nell’apposita voce contabile.

È vero che in occasione della risoluzione la Banca d’Italia ha utilizzato criteri penalizzanti per valutare le sofferenze delle quattro banche (di fatto svalutate in media a circa il 18% del loro valore nominale)? Se fosse stato applicato un tasso di svalutazione meno penalizzante i sottoscrittori di titoli azionari e subordinati si sarebbero salvati?

La valutazione delle sofferenze ai fini della risoluzione deve essere effettuata sulla base dei criteri, previsti dalla BRRD, ma anche di quanto indicato, ai fini del rispetto della normativa in materia di aiuti di Stato, nella Comunicazione della Commissione europea del 25 febbraio 2009 (Comunicazione sul trattamento delle attività che hanno subito una riduzione di valore nel settore bancario comunitario - 2009/C 72/01). Tale valutazione si discosta da quella utilizzata nelle ordinarie prassi contabili. Nel corso di una interlocuzione con la Commissione nei giorni immediatamente precedenti la risoluzione, questa ha chiaramente indicato come unica soluzione accettabile, in quanto approssimativa del valore teorico di cessione immediata dei crediti, una valutazione di quelli collateralizzati pari al 25% dell’importo erogato e di quelli non collateralizzati pari all'8%. La stessa Commissione vi ha fatto riferimento nel suo comunicato stampa del 22 novembre 2015.

Per le regole sugli aiuti di Stato e della BRRD, in caso di risoluzione tutte le prime perdite sono a carico degli azionisti e, subito dopo, dei portatori di titoli subordinati. Pertanto, anche qualora la valutazione delle sofferenze fosse stata meno severa, ne avrebbe tratto vantaggio il Fondo di Risoluzione che avrebbe dovuto coprire un minore importo di perdite. Data l’entità delle perdite, nulla sarebbe invece cambiato per i detentori di azioni e titoli subordinati.

Quanti sono attualmente i detentori di obbligazioni subordinate delle quattro banche? E a quanto ammonta il valore complessivo delle obbligazioni subordinate nell’intero sistema?

I detentori di obbligazioni subordinate delle quattro banche erano circa 10.500, per un valore totale di 789 milioni; quasi la metà di questo valore era nei portafogli di investitori istituzionali o professionali. Secondo i dati disponibili alla fine dello scorso mese di ottobre, l’ammontare complessivo delle obbligazioni subordinate emesse dalle banche italiane era di 67 miliardi. Al netto dei titoli riacquistati dalle banche emittenti, le obbligazioni subordinate in circolazione erano pari a circa 59 miliardi, delle quali 31 miliardi detenute da investitori al dettaglio.

Perché la Banca d’Italia non è intervenuta per vietare la vendita di strumenti rischiosi a investitori inconsapevoli?

In base alla legge, la Banca d’Italia non ha il potere di vietare la vendita degli strumenti interessati dai provvedimenti di risoluzione. Dal 3 gennaio 2017, con il recepimento della nuova normativa europea sui mercati degli strumenti finanziari (direttiva cosiddetta Mifid2 e regolamento cosiddetto Mifir), la Banca d’Italia potrà vietare la commercializzazione di prodotti finanziari, ma per soli motivi di stabilità finanziaria; per i profili di tutela dell’investitore resterà competente la Consob.

Come possono gli investitori informarsi adeguatamente dei rischi connessi con le nuove regole in materia di gestione delle crisi e poter assumere decisioni consapevoli (soprattutto con riferimento al bail-in)? Quali sono le responsabilità della Banca d’Italia nel controllo delle emissioni di strumenti potenzialmente chiamati a sopportare le perdite in caso di dissesto dell’intermediario?

Il collocamento di obbligazioni bancarie, anche subordinate, costituisce – ai sensi del Testo Unico della Finanza (TUF) – collocamento diretto di prodotti finanziari bancari (se svolto dalla banca emittente) o servizio di investimento (se effettuato da intermediari diversi dalla banca emittente). In entrambi i casi si applicano le disposizioni del TUF a tutela degli investitori e, in particolare, gli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dell’investitore previsti dagli artt. 21 e 23 del TUF e dal Regolamento Intermediari della Consob, in attuazione della direttiva Mifid (direttiva 2004/39/CE). Secondo queste disposizioni, tra gli obblighi dell’intermediario rientra quello di acquisire dal cliente le informazioni necessarie alla prestazione del servizio (ad es., la conoscenza e l’esperienza del cliente nel settore di investimento; la sua situazione finanziaria; i suoi obiettivi di investimento), nonché operare in modo che l’investitore sia sempre informato. L’acquisizione di queste informazioni ha un ruolo fondamentale nell’intero processo: l’intermediario, infatti, in base ai dati raccolti, procede alla profilatura del cliente al fine di individuare le operazioni adeguate alle sue caratteristiche. Un giudizio di inadeguatezza comporta l’obbligo per l’intermediario di informare il cliente, ma non il divieto di effettuare l’operazione nell’ambito dell’attività di collocamento di strumenti finanziari (contrariamente a quanto previsto per l’attività di gestione di portafogli e di consulenza). Un ulteriore presidio a tutela degli investitori è costituito dall’obbligo, in caso di offerta pubblica di vendita o sottoscrizione di prodotti finanziari (incluse le obbligazioni bancarie, anche subordinate), di pubblicare un prospetto informativo per rendere edotti i risparmiatori delle caratteristiche dei prodotti offerti (artt. 93-bis e ss. del TUF).

Ai sensi del TUF, i controlli relativi al rispetto di questo insieme di regole da parte delle banche e degli altri intermediari spettano, in via esclusiva, alla Consob. In mancanza di una specifica richiesta di quest’ultima la Banca d’Italia non può avviare di propria iniziativa accertamenti sul rispetto di disposizioni concernenti la tutela dell’investitore. Tuttavia, avuta presente la ripartizione delle competenze di vigilanza fra le due Autorità prevista dal TUF (sana e prudente gestione degli intermediari per la Banca d’Italia; tutela dell’investitore per la Consob), la Banca d’Italia:

  • può svolgere accertamenti ispettivi concernenti profili di tutela dell’investitore su specifica richiesta della Consob (proprio a tal fine, comunica all’Autorità l’avvio delle proprie ispezioni, così da metterla  nella condizione di chiedere accertamenti ispettivi mirati);
  • informa la Consob qualora nell’ambito di propri accertamenti emergano profili significativi di potenziale interesse per la stessa Consob (si tratta di potenziali irregolarità che emergano nel corso degli accertamenti in assenza di specifiche attività di indagine mirata che sarebbero, come detto, precluse in assenza di una richiesta della Consob).

Ferma restando la specifica competenza della Consob, la Banca d’Italia si è impegnata in un’intensa attività di sensibilizzazione sul potenziale impatto del recepimento della BRRD sui detentori di obbligazioni bancarie. A seguito dell’emanazione della legge delega, sul sito della Banca d’Italia è stato pubblicato il documento richiamato all’inizio che illustra le novità derivanti dal nuovo sistema di gestione delle crisi bancarie e i possibili effetti per gli investitori http://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/2015/gestione-crisi-bancarie/index.html; recentemente è stato organizzato un incontro con le Associazioni dei consumatori, al fine di individuare modalità per accrescere la consapevolezza degli investitori in merito; nei mesi scorsi sia il Governatore sia altri membri del Direttorio, a più riprese, hanno sottolineato in occasioni pubbliche (incluse audizioni presso Camera e Senato) l’importanza e la delicatezza della questione, suggerendo come possibile opzione anche l’introduzione, in futuro, di vincoli normativi specifici al collocamento degli strumenti assoggettabili a bail-in, in modo da limitarne la diffusione presso i risparmiatori meno sofisticati e incanalarla verso gli investitori professionali.

I problemi delle quattro banche derivano in larga parte da crediti concessi e mai rimborsati. Perché la Banca d’Italia non pubblica le proprie valutazioni sullo stato di salute delle banche, e l'elenco di quanti hanno ricevuto finanziamenti che non hanno poi restituito?

La legge lo vieta. Le informazioni in possesso della Banca d’Italia in ragione dell'attività di vigilanza informativa, regolamentare e ispettiva non possono essere divulgate per i vincoli imposti dal segreto d’ufficio ai sensi dell’art.7 del TUB, in base al quale "tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Banca d'Italia in ragione della sua attività di vigilanza sono coperti da segreto d'ufficio anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni…". Analoghi vincoli sono del resto imposti dalla normativa europea (Regolamento UE n.1024/2013 del Consiglio). La violazione del segreto d’ufficio da parte di un funzionario della Banca d’Italia può rilevare anche da un punto di vista penale. Il segreto d’ufficio non si applica in alcuni ben delimitati casi (ad esempio nei confronti della magistratura e della Consob).

Va sottolineato che le banche, come tutte le altre imprese private, possono incontrare problemi temporanei di varia natura. Molti casi di banche in difficoltà sono stati risolti negli anni senza che la Vigilanza potesse darne pubblica evidenza, in ossequio alle norme vigenti sul segreto d’ufficio. A fronte dell’azione di vigilanza effettuata e degli accertamenti ispettivi condotti, la Banca d’Italia ha reso note le informazioni divulgabili (per es. le sanzioni applicate agli esponenti) coerentemente con i vincoli imposti dalla richiamata disciplina del segreto d’ufficio. Ovviamente, in tutti i casi in cui sono emerse possibili malversazioni, la Banca d’Italia ha dato tempestiva informazione all’Autorità giudiziaria.

Perché le crisi di questi mesi sono emerse solo dopo l’arrivo della Vigilanza europea?

Non è così. È bene ricordare che la vigilanza nazionale è parte della Vigilanza europea: il Meccanismo di vigilanza unico europeo è infatti basato sulla stretta collaborazione tra la Banca Centrale Europea e le Autorità di vigilanza nazionali. Insieme, nel corso di questo primo periodo di operatività, sono stati trattati i problemi relativi alle singole banche dei diversi paesi e al sistema bancario nel suo complesso. Sono stati compiuti sforzi significativi per dar vita a un sistema di vigilanza unico in grado di garantire pari trattamento agli intermediari.  Le ispezioni in loco che hanno fatto emergere episodi di mala gestio presso intermediari italiani sono state effettuate da gruppi ispettivi composti totalmente o per la maggior parte da personale della Banca d’Italia.

Come funziona l’irrogazione delle sanzioni ai vertici delle banche?

Il procedimento è disciplinato dalla legge (in particolare: l’art. 145 del TUB e le leggi n. 689/1981, n. 241/1990 e n. 262/2005) e dai provvedimenti applicativi della Banca d’Italia e avviene secondo uno schema formalizzato in tutti i suoi passaggi. Qualora, nel corso dell’attività di vigilanza, siano accertate irregolarità sanzionabili in via amministrativa, la Banca d'Italia contesta formalmente gli addebiti ai soggetti ritenuti responsabili e avvia nei loro confronti un procedimento sanzionatorio. Il procedimento è retto dai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della separazione tra funzioni istruttorie e decisorie; i destinatari delle contestazioni hanno la facoltà di presentare alla Vigilanza deduzioni scritte e di chiedere l’audizione personale, nonché di chiedere l’accesso agli atti del procedimento. Al termine della fase istruttoria, valutati i fatti accertati, le difese presentate e ogni altro elemento informativo disponibile, viene sottoposta al Direttorio della Banca d’Italia una proposta in merito all’irrogazione di sanzioni; il Direttorio, sentito l’Avvocato generale della Banca d’Italia, decide collegialmente con provvedimento motivato.

Il provvedimento sanzionatorio è notificato ai destinatari e pubblicato sul sito della Banca d'Italia.

Gli interessati devono provvedere nel termine di trenta giorni dalla notifica del provvedimento al pagamento della sanzione. Contro il provvedimento sanzionatorio si può ricorrere nei termini e con le modalità previste dalla legge.

Quali provvedimenti sono stati presi o verranno presi nei confronti degli ex dirigenti delle quattro banche responsabili dei dissesti?

La Banca d’Italia ha avviato procedimenti sanzionatori nei confronti di tutti i responsabili aziendali a carico dei quali sono emerse ipotesi di irregolarità amministrative; ha inoltre comunicato all’Autorità Giudiziaria senza ritardo, al momento stesso in cui sono stati rilevati,  tutti i fatti di possibile interesse emersi nel corso dell’attività di vigilanza.

È vero che la Banca d’Italia ha “sponsorizzato” l’operazione di aggregazione della Banca Popolare dell’Etruria con la Banca Popolare di Vicenza?

No. La Vigilanza è chiamata ad autorizzare richieste di aggregazioni fra banche sulla base dei criteri fissati dalla legge, i quali badano al fatto che la banca risultante dall’aggregazione possa essere gestita in modo sano e prudente. Nel caso Banca Popolare dell’Etruria-Banca Popolare di Vicenza l’ipotesi di aggregazione fu autonomamente avanzata dalla banca vicentina. La Vigilanza, come da prassi, ascoltò le ragioni di entrambe le parti per formarsi tempestivamente un giudizio ai fini dell’autorizzazione che potesse esserle infine richiesta. Ma il negoziato non proseguì perché le parti non si misero d’accordo e nessuna richiesta di autorizzazione fu mai formalmente avanzata.

È vero che altri paesi usano ancora gli aiuti di Stato mentre da noi sono i piccoli investitori a pagare?

Prima dell’adozione della Comunicazione della Commissione europea del 2013 in materia di aiuti di Stato alle banche numerosi paesi europei avevano erogato ingenti aiuti di Stato ai sistemi finanziari nazionali, poiché la legislazione comunitaria in materia imponeva meno vincoli su questi interventi. Più di recente è stato consentito dalla Commissione un intervento del fondo tedesco di tutela dei depositi nel salvataggio di una banca tedesca in quanto l’intervento iniziale è stato effettuato prima dell’entrata in vigore della citata Comunicazione.

In che modo e con quali tempi sarà data soluzione ai problemi delle banche attualmente commissariate?

A oggi le banche in Amministrazione straordinaria sono tre. Se si esclude il Credito Sportivo, ente pubblico, le altre due sono banche cooperative di piccolissime dimensioni, per le quali è in corso la ricerca di soluzioni in grado di tutelare pienamente i creditori.