n. 1 - L'economia delle regioni italiane nel 2005 (Economic Developments in the Italian regions in 2005)

Nel 2005, a fronte di un ristagno dell’economia italiana nel suo complesso, il PIL è calato dello 0,1 per cento al Centro e dello 0,2 nel Nord Ovest e nel Mezzogiorno; è aumentato dello 0,4 per cento nel Nord Est.

Nel Nord Ovest, l’andamento sia dell’industria (-1,9 per cento) sia dei servizi (0,7 per cento) è stato leggermente più debole di quello dell’insieme delle restanti aree. Nel Nord Est la crescita è stata trainata dal settore dei servizi, dove il valore aggiunto è aumentato dell’1,3 per cento; il calo nell’industria (-0,4 per cento) è risultato inferiore a quello registrato nelle restanti ripartizioni, grazie soprattutto al positivo andamento del settore delle macchine e apparecchi meccanici. Al Centro il contributo positivo del settore delle costruzioni non è stato sufficiente a compensare il calo nell’industria in senso stretto, che ha risentito soprattutto delle difficoltà dei settori tradizionali; ne è risultata per l’industria nel suo complesso una flessione del 2,9 per cento, superiore a quella delle restanti aree territoriali; nei servizi il valore aggiunto è aumentato a un ritmo eguale a quello dell’intero Paese (0,8 per cento). Nel Mezzogiorno i servizi hanno registrato una crescita dello 0,4 per cento, inferiore a quella delle altre ripartizioni; nonostante il contributo positivo del settore delle costruzioni, l’industria ha registrato una flessione dell’1,7 per cento, in linea con la media nazionale; il valore aggiunto dell’agricoltura è calato in misura inferiore rispetto al resto del Paese.

Dall’inizio del decennio il ritmo di crescita del prodotto in Italia si è in media ridotto a poco più di mezzo punto percentuale all’anno, un valore pari a circa un terzo di quello del resto dell’area dell’euro; in termini pro capite il prodotto è aumentato di appena lo 0,1 per cento all’anno. La crescita è stata particolarmente debole nelle aree più avanzate del paese: il Nord Ovest e il Nord Est. Nelle regioni meridionali, come nel quinquennio precedente, il PIL ha continuato a crescere in misura leggermente superiore rispetto al Centro Nord fino al 2003; nel successivo biennio la dinamica è scesa al di sotto della media nazionale. In termini pro capite, il prodotto è aumentato nel Mezzogiorno dell’1,5 per cento in media all’anno nel decennio 1996-2005; al Centro Nord l’aumento è stato pari allo 0,7 per cento, risentendo del significativo incremento della popolazione dovuto ai flussi migratori provenienti sia dalle regioni meridionali sia dall’estero. La differenza tra le aree nel prodotto per abitante si è ridotta; il recupero è stato tuttavia modesto rispetto al divario che separa il Mezzogiorno dal resto del Paese (40,0 per cento nel 2005, contro il 44,3 nel 1995).

Tra il 1995 e il 2003 la crescita delle regioni italiane è stata inferiore a quella delle regioni europee che all’inizio del periodo mostravano un comparabile livello di sviluppo. Le regioni meridionali hanno mostrato un relativo arretramento rispetto alla media del prodotto pro capite dell’Unione europea, a differenza delle altre regioni europee in ritardo, che si sono avvicinate alla media dell’Unione. Le regioni italiane che nel 1995 si caratterizzavano per un prodotto pro capite superiore a quello medio europeo hanno ridotto sensibilmente il loro vantaggio nel 2003, mentre per le regioni europee più avanzate il prodotto pro capite in rapporto alla media europea era solo marginalmente inferiore a quello del 1995.

Nell’ultimo quinquennio la produttività del lavoro è rimasta sostanzialmente invariata al Centro Nord ed è cresciuta solo lievemente nel Mezzogiorno (0,4 per cento all’anno). Il rallentamento della produttività rispetto alla seconda metà degli anni novanta ha interessato la maggioranza dei settori dell’economia.

Nei servizi privati, dalla metà degli anni novanta, la crescita della produttività è stata pressoché nulla in Italia, a fronte di un aumento medio annuo dello 0,7 per cento nell’area dell’euro e del 3,2 negli Stati Uniti. In molte attività del terziario barriere all’entrata e vincoli regolamentari frenano l’innovazione e il conseguimento di una maggiore efficienza, generano rendite che accrescono i costi delle imprese e danneggiano i consumatori. Nel confronto europeo l’Italia risulta fra i paesi con una regolamentazione più stringente in tutti i servizi professionali. Nel settore del commercio al dettaglio molte Regioni hanno adottato disposizioni volte a limitare lo sviluppo delle grandi strutture di vendita. La presenza di restrizioni allo sviluppo della grande distribuzione contribuisce a spiegare le differenze territoriali nel livello dei margini commerciali e della produttività nel settore distributivo; si riflette sui prezzi pagati dai consumatori.

Nell’industria la produttività si è ridotta in tutte le aree territoriali nell’ultimo quinquennio, con una flessione di eguale intensità nel Mezzogiorno e al Centro Nord. Il mutato contesto tecnologico e la crescente integrazione internazionale hanno contribuito ad aggravarne gli effetti. La capacità di competere nei settori più avanzati è indebolita dalla limitata dimensione delle imprese, che ostacola l’impiego delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e l’attività innovativa. Nei settori tradizionali la concorrenza dei paesi emergenti ha colpito in maniera particolare i distretti industriali del Nord Est e del Centro specializzati in queste produzioni e le aree del Mezzogiorno dove negli anni novanta si erano sviluppate forme analoghe d’industrializzazione leggera. Le difficoltà competitive della nostra industria si sono riflesse in una perdita delle quote di mercato delle esportazioni italiane.

Tra il 2000 e il 2005 le esportazioni di beni sono aumentate a prezzi correnti a un ritmo del 2,5 per cento all’anno nel Nord Ovest, del 2,8 nel Nord Est, dello 0,7 al Centro e del 3,5 nel Mezzogiorno; in tutte le ripartizioni la crescita è risultata inferiore a quella del valore del commercio mondiale di beni. L’analisi degli andamenti delle esportazioni italiane verso i 21 principali paesi dell’OCSE, che assorbono circa il 70 per cento delle nostre esportazioni, mostra che per tutte le aree, tranne che per il Mezzogiorno, il calo delle quote di mercato a prezzi correnti tra il 1996 e il 2003 è principalmente attribuibile alla perdita di competitività, più accentuata nel Nord Ovest e al Centro.

La scarsa capacità di adeguarsi all’evoluzione geografica della domanda mondiale ha penalizzato tutte le aree del Paese. La struttura settoriale delle esportazioni ha influenzato negativamente soprattutto il Nord Est, la Toscana e le Marche. In presenza di difficoltà a modificare il modello di specializzazione, sono riuscite a fronteggiare meglio la concorrenza internazionale quelle imprese che hanno investito sulla qualità dei prodotti e sui canali di commercializzazione all’estero o che hanno mirato a contenere i costi di produzione internazionalizzando l’attività produttiva, con riflessi positivi anche sull’occupazione e sugli investimenti interni.

Nel Mezzogiorno la diffusione settoriale e territoriale dell’attività di esportazione che aveva caratterizzato gli anni novanta si è interrotta nella prima parte del decennio in corso. La crescita delle esportazioni si è concentrata in pochi comparti (petrolchimica, metallurgia e mezzi di trasporto); si è ridotto il numero di province con una significativa attività di esportazione. La quota del Mezzogiorno sulle esportazioni nazionali di prodotti del settore tessile, abbigliamento, cuoio e calzature, cresciuta di 0,5 punti percentuali nel periodo 1995-2001, è calata successivamente di 0,6 punti, al 7,5 per cento nel 2005.

Le difficoltà competitive delle regioni italiane riflettono carenze in termini di qualità del capitale umano e di ricerca e sviluppo. La diffusione dell’istruzione universitaria tra la popolazione di età da 25 a 64 anni è pari al 13,0 per cento al Centro Nord e al 10,7 nel Mezzogiorno; supera il venti nell’Unione europea. Nelle regioni italiane a più elevato livello di prodotto pro capite, la diffusione dell’istruzione superiore è poco più di un terzo del valore riscontrato nelle regioni europee con caratteristiche analoghe. La spesa in ricerca e sviluppo delle imprese in rapporto al PIL è pari allo 0,4 per cento al Centro Nord e allo 0,2 nel Mezzogiorno, contro lo 0,9 dell’Unione europea. Anche in questo campo le regioni italiane più avanzate - a partire da Lombardia e Piemonte, dove si concentra buona parte dell’attività innovativa del Paese - scontano forti ritardi nei confronti di quelle europee. Il divario risente della scarsa presenza di grandi imprese nell’economia italiana: quasi tre quarti dell’attività di ricerca e sviluppo è svolta da imprese con almeno 500 addetti.

In Italia le imprese avevano in media, nel 2003, 3,8 addetti, contro 7,1 in Francia, 12,2 nel Regno Unito e 12,4 in Germania; i divari sono più ampi nel commercio, nell’industria manifatturiera e nei servizi alle imprese. Gli ostacoli alla crescita dimensionale delle imprese frenano anche il conseguimento di una struttura finanziaria più solida e diversificata, che consentirebbe di cogliere, in prospettiva, le ulteriori opportunità di salto dimensionale. Crescita delle imprese e sviluppo del mercato dei capitali si sostengono a vicenda. Le imprese italiane raccolgono direttamente sul mercato, attraverso obbligazioni e azioni quotate, solo un sesto delle proprie fonti di finanziamento, una quota decisamente più ridotta rispetto a quella dei principali paesi industriali. Anche per le imprese del Centro Nord, l’incidenza delle obbligazioni sui debiti finanziari è inferiore non solo a quella dei paesi anglosassoni ma anche alla media dell’area dell’euro; per le imprese meridionali la raccolta di fondi sotto forma di obbligazioni o azioni quotate è marginale.

La flessione dei tassi d’interesse, connessa con la partecipazione all’unione monetaria, ha consentito alle imprese italiane di allungare la scadenza del debito e di contenere l’incidenza degli oneri finanziari sul margine operativo, mantenendola su livelli modesti anche in una fase di congiuntura sfavorevole (2,4 per cento nel triennio 2002-04, contro il 3,7 del triennio precedente). Per le imprese del Mezzogiorno la percentuale degli oneri finanziari netti sul margine operativo lordo resta di oltre otto punti superiore a quella delle imprese del Centro Nord, risentendo della minore redditività e del più elevato indebitamento in rapporto al valore aggiunto.

Anche in un periodo di protratta debolezza dell’attività economica, l’offerta di credito è rimasta ampia in tutte le aree del Paese. Nel 2005 i margini non utilizzati sulle linee di credito si sono ulteriormente ampliati; i tassi di interesse a breve termine sui prestiti alle imprese si sono mantenuti sostanzialmente ai livelli dell’anno precedente. I prestiti bancari sono aumentati complessivamente dell’8,8 per cento, soprattutto per effetto della componente a medio e a lungo termine.

L’espansione dei prestiti è risultata superiore nel Mezzogiorno, come nel biennio precedente; vi ha contribuito soprattutto la crescita dei finanziamenti al settore produttivo. Nell’ultimo decennio, grazie anche all’intervento degli intermediari del Centro Nord, si è accresciuto il rapporto tra prestiti e raccolta nelle regioni meridionali.

I prestiti alle famiglie sono aumentati a un ritmo elevato in tutte le aree territoriali, sia nella componente dei mutui (17,0 per cento), sia in quella del credito al consumo (19,2 per cento). Nonostante la forte crescita registrata negli ultimi anni, l’incidenza dei prestiti alle famiglie sul PIL resta largamente inferiore alla media dell’area dell’euro. In rapporto alla popolazione l’ammontare dei prestiti alle famiglie meridionali risulta meno della metà rispetto a quello delle altre regioni; la differenza si concentra nella componente dei mutui per l’acquisto di abitazioni, mentre il credito al consumo presenta una diffusione più omogenea tra Centro Nord e Mezzogiorno.

I crediti divenuti inesigibili nell’anno sono stati lo 0,9 per cento dei prestiti complessivi. Il tasso di ingresso in sofferenza è diminuito nel Mezzogiorno all’1,3 per cento (1,4 nel 2004), è rimasto invariato al Centro Nord (0,8 per cento).

Nel 2005 le scelte di portafoglio delle famiglie sono tornate a orientarsi verso strumenti caratterizzati da livelli di rischio e rendimento atteso più elevati, come azioni, quote di fondi comuni e obbligazioni non bancarie. Gli investimenti in azioni e obbligazioni societarie sono cresciuti al Centro Nord, mentre si sono ridotti nel Mezzogiorno; i fondi comuni italiani hanno continuato a registrare una raccolta netta negativa, a vantaggio dei fondi istituti all’estero da intermediari italiani. In Italia la dimensione complessiva del settore degli investitori istituzionali resta tuttora più contenuta rispetto agli altri principali paesi industriali. Alla fine del 2004 l’incidenza degli strumenti offerti da questi intermediari sulle attività finanziarie delle famiglie era pari al 25 per cento in Italia; superava il 40 per cento in Germania, Francia e Stati Uniti, raggiungeva il 57 nel Regno Unito. Anche nelle aree economicamente e finanziariamente più sviluppate del Paese il ruolo degli investitori istituzionali resta inferiore a quello dei principali paesi avanzati; è particolarmente ridotto nel Mezzogiorno, dove i premi contabilizzati dalle imprese assicurative nel ramo vita rappresentano solo un sesto del totale nazionale e i fondi comuni e le gestioni patrimoniali, in rapporto alla raccolta bancaria diretta e indiretta, rappresentano solo il 60 per cento della quota del Centro Nord.
Il divario rispetto agli altri paesi riflette lo scarso sviluppo dei fondi pensione, oltre che la minore diffusione delle polizze assicurative. Secondo statistiche dell’Ocse, le attività gestite dai fondi pensione rappresentano in Italia solo il 2,6 per cento del PIL; la differenza è particolarmente ampia rispetto ai paesi anglosassoni. Alla fine del 2005 erano iscritti ai fondi pensione di nuova istituzione circa 1,6 milioni di lavoratori; la percentuale di adesione in rapporto al numero di occupati era nel Mezzogiorno circa la metà di quella del Centro Nord.

Nei portafogli finanziari delle famiglie italiane, soprattutto nel Mezzogiorno, resta ancora rilevante l’incidenza di depositi bancari e postali e di titoli di Stato. Nel Mezzogiorno essi assorbivano, nel 2004, oltre l’80 per cento degli investimenti finanziari, contro circa il 60 per cento delle regioni del Centro Nord. Nelle regioni meridionali restano ritardi anche nell’utilizzo dei servizi bancari, in particolare nel campo degli strumenti di pagamento.

Nel 2005 la raccolta bancaria da residenti è cresciuta del 4,7 per cento. A fronte di un’accelerazione dei depositi (6,9 per cento), è lievemente diminuita la provvista obbligazionaria da residenti, mentre si è accresciuto il ricorso delle banche italiane all’euromercato. Le obbligazioni costituiscono quasi un terzo della raccolta bancaria nelle regioni settentrionali, meno di un quarto al Centro, meno di un quinto nel Mezzogiorno, dove oltre il 70 per cento della raccolta è rappresentato da depositi a risparmio e conti correnti.

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