N. 639 - Il divario generazionale: un'analisi dei salari relativi dei lavoratori giovani e vecchi in Italia

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di Alfonso Rosolia e Roberto Torrinisettembre 2007

Negli ultimi anni i lavoratori più giovani sembrano incontrare, in Italia, difficoltà crescenti nel costruirsi una carriera lavorativa che consenta il pieno sviluppo delle attitudini e delle capacità individuali, con una conseguente maggiore dipendenza dalle famiglie di origine. Motivato dai timori di un possibile arretramento delle condizioni di vita delle nuove generazioni, rispetto a quelle godute dalle generazioni precedenti, il lavoro analizza l’andamento dei salari dei lavoratori dipendenti più giovani negli anni novanta e lo raffronta con i dati relativi ai lavoratori delle altre fasce di età.

Il saggio mostra che il salario relativo dei lavoratori dipendenti più giovani si è effettivamente ridotto nel corso degli anni novanta. Secondo i dati dell’indagine sulle famiglie condotta dalla Banca d’Italia, alla fine degli anni ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini tra i 19 e i 30 anni erano del 20 per cento più basse di quelle degli uomini tra i 31 e i 60 anni; nel 2004 la differenza era quasi raddoppiata in termini relativi, salendo al 35 per cento. Un andamento simile si osserva per le retribuzioni orarie, che non risentono della crescente diffusione del lavoro part-time, ed è riscontrabile a tutti i livelli di istruzione. Nel complesso, la dinamica del differenziale retributivo tra generazioni non sembra riflettere cambiamenti nella composizione settoriale dell’occupazione, quanto piuttosto il declino dei salari d’ingresso, presumibilmente connesso ai mutamenti della legislazione sul mercato del lavoro.

Considerando un campione di lavoratori dipendenti del settore privato, estratto dagli archivi dell’Inps, si stima che nel decennio 1992-2002 il salario mensile iniziale (misurato ai prezzi del 2002) sia diminuito di oltre l’11 per cento per i giovani entrati sul mercato del lavoro tra i 21 e 22 anni, presumibilmente diplomati (da 1.200 euro mensili a meno di 1.100); il calo è dell’8 per cento per i lavoratori tra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1.300 a 1.200 euro mensili). Per entrambe le classi di età, i salari d’ingresso, a prezzi costanti, sono tornati nel 2002 sui livelli di venti anni prima. La riduzione del salario d’ingresso negli anni novanta non è stata controbilanciata da una carriera e, quindi, una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito, in termini reali, nel confronto con le generazioni precedenti risulta dunque in larga parte permanente.

Una prima possibile spiegazione di questi andamenti si basa su considerazioni dal lato dell’offerta. La teoria economica suggerisce che all’aumentare della disponibilità di un fattore produttivo il suo prezzo diminuisca. Le tendenze demografiche vanno, tuttavia, nella direzione opposta: il calo della crescita della popolazione e il suo progressivo invecchiamento avrebbero dovuto contribuire a sostenere i salari dei più giovani, diventati meno numerosi e maggiormente istruiti. Né vi sono indicazioni che l’aumento del numero di lavoratori più istruiti (per esempio, i laureati), a cui le persone più giovani contribuiscono con quote crescenti, abbia generato un eccesso di offerta e abbia frenato la crescita dei rispettivi redditi.

Una seconda possibile spiegazione è che modificazioni nella domanda di lavoro abbiano favorito un ingresso più rapido che in passato dei lavoratori meno abili, riducendo in media la produttività, e quindi le retribuzioni, dei nuovi assunti. In questo caso, tuttavia, si dovrebbe osservare un aumento della dispersione dei salari d’ingresso, che invece non emerge dai dati: sia per le persone occupate per la prima volta a 21-22 anni sia per quelle occupate per la prima volta a 25-26 anni, la dispersione dei salari d’ingresso (misurata dal coefficiente di variazione) si è ridotta fino ai primi anni novanta, per poi aumentare solo lievemente.

In conclusione, le preoccupazioni per il peggioramento relativo delle carriere lavorative delle generazioni più giovani appaiono fondate, anche in un contesto economico generalmente meno soddisfacente per tutti. Né i fattori di domanda e offerta né l’ingresso di individui mediamente meno qualificati rispetto al passato riescono a spiegare questa tendenza. Sembra plausibile invece ipotizzare che, in un quadro di generale moderazione salariale, l’aggiustamento delle retribuzioni sia stato asimmetrico e abbia penalizzato maggiormente le prospettive dei lavoratori neoassunti rispetto a quelle dei lavoratori già impiegati.