Negli anni novanta la struttura del mercato del lavoro italiano è radicalmente mutata. L’uscita dalla grave recessione del 1993 e l’aumento dell’occupazione che si è avviato nel 1995 hanno coinciso con un considerevole sviluppo delle cosiddette forme contrattuali “atipiche” e con grandi trasformazioni nella struttura per età, sesso e livello di scolarità degli occupati. E’ opinione diffusa che questi cambiamenti abbiano profondamente modificato la distribuzione dei redditi da lavoro e, più in generale, la distribuzione di quelli familiari, incidendo sulla diffusione della povertà tra le famiglie.
Il presente lavoro contribuisce a questo dibattito, in primo luogo, fornendo una documentata evidenza statistica su come si è modificata la distribuzione delle retribuzioni nette in Italia negli anni 1977-1998, nel suo insieme e distinta per sesso e area geografica. Particolare attenzione è dedicata ai cosiddetti lavoratori a bassa retribuzione (low-pay workers), alla loro composizione e all’evoluzione della loro quota nel tempo. In secondo luogo, il lavoro esamina quale sia il legame tra posizione nel mercato del lavoro e condizione di povertà e, in particolare, se lo stato di povertà della famiglia sia associato più alla quantità di lavoro complessivamente prestata o ai bassi salari percepiti dai singoli membri.
Lo studio si basa sui dati dell’Archivio Storico dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane della Banca d’Italia, la base dati più coerente per indagare nel tempo la distribuzione dei salari e del reddito in Italia.
La dispersione delle retribuzioni mensili nette reali ha subito una lunga fase di contrazione, più intensa nella seconda metà degli anni settanta e nei primi anni ottanta, poi via via meno marcata fino al 1989 (Fig. 1). Nei primi anni novanta la dispersione si è fortemente ampliata ed è quindi rimasta sui livelli raggiunti per il resto del decennio. Questo profilo temporale è comune a vari sottogruppi della popolazione (maschi e femmine, residenti nel Centro-Nord e nel Mezzogiorno, lavoratori dipendenti a tempo pieno). Fanno in parte eccezione i lavoratori maschi delle classi centrali di età, occupati tutto l’anno in settori non agricoli, per i quali la tendenza verso una maggiore diseguaglianza delle retribuzioni era emersa già alla metà degli anni ottanta, ma con minore intensità di quanto poi accaduto all’intera distribuzione. Questo comportamento difforme rispetto all’intero campione indica che le trasformazioni degli anni novanta sono prevalentemente attribuibili a cambiamenti che hanno coinvolto lavoratori ai margini del mercato.
L’evoluzione negli anni della quota dei lavoratori a bassa retribuzione – cioè con una retribuzione inferiore ai due terzi del valore mediano delle retribuzioni degli occupati dipendenti a tempo pieno – ha seguito un profilo simile a quello della disuguaglianza delle retribuzioni (Fig. 2). Essa è scesa dal 17 per cento nel 1977 a un minimo dell’8 per cento nel 1989; è tornata a salire al 16 per cento nel 1993 e, dopo una caduta nel 1995, ha raggiunto un picco del 18 per cento nel 1998. L’aumento tra il 1993 e il 1998 è interamente dovuto alla diffusione dei lavori a tempo parziale, tenuto conto che l’incidenza dei lavoratori a bassi salari tra quelli a tempo pieno è rimasta costante al 12 per cento. Come negli altri grandi paesi industriali, percepiscono basse retribuzioni soprattutto i giovani e le donne, in genere coloro che non sono capifamiglia, che hanno un basso livello di istruzione, inquadrati in mansioni operaie e in settori come l’agricoltura e il commercio.
Il legame tra povertà della famiglia e lavoratori a bassa retribuzione non è univoco. Da un lato, oltre la metà dei lavoratori che vivono in famiglie povere ricevono retribuzioni basse. Dall’altro, solo 1 lavoratore a basso salario su 5 vive in famiglie povere. Questa apparente contraddizione si spiega con la considerazione che lo stato di povertà dipende non solo dal livello relativo delle retribuzioni, ma anche dal numero dei componenti della famiglia che lavorano, oltre che dalle altre fonti di reddito.
L’analisi statistica mostra che la probabilità di vivere in una famiglia povera è correlata negativamente con l’aumentare del numero di mesi lavorati, specialmente se il lavoro aggiuntivo è prestato da un membro diverso dal capofamiglia. L’associazione tra rischio di povertà e bassa retribuzione è positiva solo se quest’ultima riguarda il capofamiglia. L’ammontare del lavoro prestato dalla famiglia appare più importante dell’essere percettore di un basso salario anche nell’attenuare la gravità dello stato di povertà (poverty gap).
Pubblicato nel 2002 in: D. Cohen, T. Piketty, G. Saint-Paul (eds.), The Economics of Rising Inequalities, Oxford, Oxford University Press