N. 389 - The monetary transmission mechanism: evidence from the industries of five OECD countries

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di L. Dedola e F. Lippidicembre 2000

Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, ovvero le modalità con cui gli impulsi monetari si trasmettono all’economia reale e all’inflazione, è oggetto di attenzione costante da parte delle banche centrali; nell’area dell’euro assumono particolare rilievo le differenze nella trasmissione monetaria tra i singoli paesi.

Questo lavoro si pone il duplice obiettivo di documentare gli effetti della politica monetaria sul livello di attività economica in 21 settori industriali di 5 paesi (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) e di spiegare le differenze nella trasmissione monetaria in base alle caratteristiche settoriali. I dati disaggregati dei diversi settori dell’industria manifatturiera permettono di analizzare alcune implicazioni delle principali teorie della trasmissione monetaria, nonché i fattori alla base delle differenze del meccanismo di trasmissione.

Nella prima parte dell’indagine si analizza l’effetto prodotto da aumenti inattesi di un punto percentuale del tasso d’interesse a breve termine sul livello di attività economica, per mezzo di VAR strutturali. In ogni paese i settori reagiscono in maniera significativamente diversa. Alcuni settori, come quello automobilistico, mostrano una reattività agli shock monetari assai marcata, mentre altri, come quello dell’abbigliamento, sembrano risentirne in misura appena percettibile. Le differenze tra settori sono però simili nei diversi paesi.

Nella seconda parte del lavoro si analizza in che misura gli effetti della politica monetaria siano influenzati da caratteristiche strutturali di ciascun settore. A tal fine le diverse misure dell’elasticità settoriale a variazioni inattese dei tassi di interesse sono state regredite su indicatori settoriali, identificati in base alle teorie prevalenti sulla trasmissione monetaria. Un primo gruppo di indicatori è riconducibile al “canale monetario” di trasmissione: una restrizione monetaria innalza il tasso di interesse reale a causa della presenza di “rigidità nominali” nell’economia e determina per questa via una riduzione dell’attività economica. L’effetto di tale rialzo dipende sia dalla particolare struttura del processo produttivo (per esempio dall’intensità di capitale, da cui dipende il fabbisogno di finanziamento) sia dalle caratteristiche del mercato del prodotto (per esempio la destinazione finale dei beni). Gli indicatori settoriali utilizzati nell’analisi sono: una dummy che distingue i settori produttori di beni di consumo durevoli e di investimento dagli altri; il grado di apertura al commercio internazionale; l’intensità di capitale; l’ammontare di capitale circolante per occupato; la dipendenza dal debito a breve termine. Le prime due variabili misurano la reattività al tasso d’interesse della domanda in ciascun settore nell’ipotesi che un aumento del tasso di interesse influisca in misura maggiore sulla domanda di beni di investimento e di consumo durevole e, tramite l’apprezzamento del cambio e quindi la perdita di competitività internazionale, sulla domanda estera. Le ultime tre misurano la reattività dell’offerta al costo del capitale; il segno atteso della relazione tra questo gruppo di variabili e la variabile dipendente (la reattività dell’output al tasso d’interesse) è negativo.

Un secondo gruppo di indicatori rientra nel “canale creditizio” di trasmissione, che pone l’accento sulle imperfezioni che possono rendere, per le imprese, i finanziamenti esterni più onerosi rispetto ai fondi generati internamente e più difficili da ottenere in caso di perdita di valore delle attività offerte a garanzia dei prestiti. Settori maggiormente contraddistinti da imprese con limitata capacità di accesso ai mercati finanziari, caratterizzate da dimensioni inferiori e da una minor leva finanziaria, dovrebbero risentire maggiormente di variazioni dei tassi d’interesse. Sono stati individuati i seguenti quattro indicatori di disponibilità di fondi esterni relativamente a ciascun settore: la dimensione delle imprese; il livello della leva finanziaria; la percentuale di imprese quotate in borsa; l’incidenza della spesa per interessi. I primi due misurano la capacità d’indebitamento, mentre il terzo segnala la facilità di accesso ai mercati finanziari, presumibilmente maggiore per le imprese quotate. La loro relazione attesa con la variabile dipendente (che assume valori negativi) è pertanto positiva. Il coefficiente dell’ultimo indicatore considerato ha invece un segno atteso negativo: una maggiore incidenza della spesa per interessi sul cashflow si riflette negativamente sulla capacità d’indebitamento.

I principali risultati possono essere così riassunti. Tra le variabili che rientrano nel canale monetario, solo la dummy per i settori produttori di beni durevoli e l’intensità di capitale mostrano coefficienti statisticamente significativi e di segno atteso. Nei ventiquattro mesi che seguono un aumento inaspettato di un punto percentuale del tasso d’interesse, la contrazione della produzione di un settore che produce beni durevoli risulta in media superiore di 0,6 punti percentuali rispetto a quella degli altri settori. Inoltre risultano statisticamente ed economicamente significativi i coefficienti di tre delle variabili che rientrano nel canale creditizio. La dimensione delle imprese e la leva finanziaria mostrano coefficienti positivi e rilevanti: sia un incremento di cento unità del numero di occupati, sia quello di un punto percentuale della leva finanziaria, riducono l’impatto della politica monetaria sulla produzione settoriale di circa 0,3 punti percentuali. Un effetto quantitativamente simile e statisticamente significativo ha la riduzione di un punto percentuale dell’incidenza della spesa per interessi. Complessivamente, queste evidenze documentano non solo l’operare del canale creditizio, conclusione frequente in letteratura, ma anche la sua rilevanza quantitativa, assai più discussa.

I risultati confermano che i dati disaggregati contengono informazioni utili ai fini della comprensione del meccanismo di trasmissione monetario sia all’interno di un singolo paese sia nel confronto internazionale. Buona parte delle differenze in tale meccanismo tra i principali paesi dell’area dell’euro sembrano riconducibili a caratteristiche strutturali, non direttamente influenzate dal passaggio alla terza fase della UEM. È quindi probabile che difformità negli effetti della politica monetaria nei singoli paesi dell’area (analogamente a quanto rilevato per le diverse regioni degli Stati Uniti) persistano nel prossimo futuro.

Pubblicato nel 2005 in: European Economic Review, v. 49, 6, pp. 1543-1569