N. 46 - Il trattamento fiscale dei rischi su crediti

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di Paolo Ciocca, Antonella Magliocco e Matilde Carla Panzeriaprile 1997

La scelta dei criteri per la determinazione del risultato economico d'impresa soggetto alle imposte sui redditi (Irpef, Irpeg e Ilor) costituisce una delle problematiche fondamentali affidate al legislatore tributario. In alcuni casi i criteri risultano allineati ai principi civilistici di redazione del bilancio d'esercizio, in altri casi divergono anche sensibilmente.

L'assenza di una totale uniformità dipende, nella sostanza, dalle diverse finalità che vengono perseguite nella fissazione dei criteri di redazione del "bilancio civilistico" e del c.d. "bilancio fiscale": i primi tendono a fornire un "quadro fedele" dell'impresa, ispirato in particolare al principio della "prudenza"; i secondi si pongono come obiettivo primario quello di assicurare certezza circa il "gettito" fiscale fornito dall'impresa.

Per le banche e le società finanziarie uno degli aspetti sui quali, nella legislazione del nostro Paese, il disallineamento si è andato manifestando nel tempo in modo sempre più accentuato concerne la valutazione dei "rischi" connessi con l'attività creditizia.

Negli anni passati, le banche e gli altri intermediari finanziari, nonostante la loro caratteristica operativa che comporta la centralità dei crediti nelle voci di bilancio, hanno condiviso con le altre imprese (non finanziarie) un sistema fiscale che consentiva la deduzione delle perdite attese sui crediti solo in via forfetaria ed entro limiti ristretti. La disciplina riconosceva una soglia massima di deducibilità annuale, fissata nello 0,50 per cento dei crediti iscritti nell'attivo del bilancio; le svalutazioni eccedenti erano considerate indeducibili.

Si può affermare che il sistema precedente alla riforma del 1995 ha contribuito, insieme con altri molteplici fattori, a comprimere i risultati di gestione delle banche: infatti, riconoscendo la deducibilità fiscale delle perdite solo al momento in cui le stesse diventavano effettive (per la parte eccedente il "fondo" fiscalmente ammesso), esso ha impedito negli anni di tenere conto dell'incidenza concreta della rischiosità del portafoglio crediti.

L'effetto per le banche è stato quello di accrescere progressivamente il divario tra l'effettiva capacità contributiva e il carico fiscale; in molteplici casi, la disciplina ha comportato l'emersione di quote di reddito imponibile improprie.

La "distorsione" derivante dal previgente sistema si è amplificata nel corso delle fasi di recessione economica, a causa della crescita particolarmente sostenuta e prolungata negli ultimi anni delle partite in sofferenza.

Sul piano congiunturale, lo scadimento della qualità degli attivi delle banche è stato ricollegato dalle stesse Autorità di vigilanza alle operazioni di finanziamento poste in essere negli anni ottanta, "quale frutto dell'evoluzione avversa del ciclo dei primi anni del novanta", alla situazione di stasi dell'attività economica del Mezzogiorno, nonché alla "crisi del settore dell'edilizia e delle opere pubbliche".

L'andamento crescente delle sofferenze ha tuttavia perso le caratteristiche di fenomeno strettamente correlato alla congiuntura, per assumere connotati di "strutturalità" connessa, tra l'altro, con la maggiore rischiosità che caratterizza il nuovo contesto interno e intemazionale, improntato alla pratica della concorrenza transfrontaliera.

È proprio nell'alveo della concorrenza "fiscale" tra ordinamenti che si rinvengono, in aggiunta al fenomeno delle sofferenze, le ulteriori ragioni alla base della revisione normativa del trattamento fiscale delle svalutazioni dei crediti intervenuta a dicembre '95, al termine di ampi dibattiti svoltisi sia nelle sedi istituzionali sia in dottrina.

È noto che nel corso del lungo processo di integrazione europea è stata costruita - nell'arco temporale di circa tre lustri (dalla prima direttiva comunitaria bancaria 77/78 ad oggi) - un'intelaiatura normativa comune per gli intermediari bancari attraverso la composizione di un corpus articolato e omogeneo di regole prudenziali. Analogo processo si è svolto (ed è tuttora in corso) per uno sviluppo integrato dei mercati mobiliari.

È ormai opinione dominante che il processo di integrazione del mercato finanziario non può ritenersi effettivamente concluso in assenza di una sostanziale convergenza del livello dei "costi fiscali" sostenuti dalle imprese operanti nei diversi Paesi europei. Il mancato allineamento di tali costi costituisce, ceteris paribus, un fattore distorsivo della concorrenza, così come ormai da più tempo rilevato in sede comunitaria. Nel rapporto Janssen (1995) del Comitato economico e sociale e nel successivo documento della Commissione delle Comunità Europee (cd. Rapporto "Monti") di ottobre '96 si è ribadito che la divergenza si rileva, oltre che nel confronto delle aliquote, anche nelle regole di determinazione della base imponibile.

In un settore, quale quello bancario e finanziario, in cui l'operatività aziendale è strettamente parametrata alle voci del patrimonio, la competizione tra operatori di diversi Paesi può essere esercitata sia attraverso diverse valutazioni delle poste patrimoniali (donde la necessità per le Autorità di vigilanza di dettare regole uniformi di comportamento) sia mediante una diversa regolamentazione a livello europeo delle poste patrimoniali degli intermediari sotto lo specifico profilo fiscale.

Si può sin d'ora anticipare che gli interventi apportati al quadro normativo con la riforma del '95 definiscono un assetto più compatibile con l'accresciuta concorrenza e con il libero operare dei meccanismi di mercato, in un'ottica di progressivo e sostanziale allineamento delle normative fiscali europee. Tali considerazioni nascono da uno studio - che costituisce l'oggetto centrale del presente lavoro - delle soluzioni ordinamentali adottate in tre principali Paesi dell'Unione Europea: Germania, Francia e Regno Unito.

Nel presente lavoro, dopo una breve ricostruzione storica dell'ordinamento italiano (capitolo primo), in cui è sintetizzata l'evoluzione della disciplina fiscale nazionale sulle svalutazioni dei crediti dagli inizi degli anni '60 fino al periodo precedente alla riforma del dicembre 1995, viene effettuata (capitolo secondo) una panoramica sul quadro normativo adottato dai Paesi sopra indicati e sulle concrete modalità di accertamento seguite dalle Amministrazioni finanziarie degli altri Stati nella verifica delle svalutazioni dei crediti fiscalmente ammesse in deduzione.

L'esperienza comparata in materia di trattamento fiscale delle svalutazioni sui crediti ha infatti ispirato sensibilmente il legislatore italiano nell'opera di modifica normativa del sistema di deducibilità delle perdite attese sui crediti delle banche e degli altri intermediari finanziari.

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