Conseguenze per la Banca d'Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5

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Natura e proprietà della Banca d’Italia. È vero che la Banca d’Italia viene privatizzata?

La Banca d’Italia era e resta un istituto di diritto pubblico, che svolge funzioni pubbliche su cui nessun soggetto privato mai ha potuto, né mai potrà, esercitare alcuna influenza. Su questo i Trattati europei e le norme italiane sono tassativi, lo erano in passato, lo rimangono oggi. Per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d’Italia già aveva una forma giuridica associativa, che ricordava quella di una società per azioni; le quote di partecipazione al capitale erano distribuite tra banche ed enti di assicurazione e previdenza, per la maggior parte divenuti dagli anni Novanta di natura privata. La riforma crea le condizioni perché i partecipanti al capitale non siano più in pochi, come oggi, ma in tanti; non solo banche e compagnie assicurative, ma anche fondi pensione e fondazioni. È un modello non dissimile da quello delle banche centrali di due tra i maggiori paesi del mondo avanzato, gli Stati Uniti e il Giappone. Nessuno mai penserebbe di considerare “private” la Federal Reserve americana o la Banca del Giappone.

La “Legge sul risparmio” del 2005 prevedeva, tra l’altro, il passaggio del capitale sociale della Banca allo Stato. Negli anni seguenti questa previsione non è stata attuata. In primo luogo, il mantenimento dell’indipendenza della Banca d’Italia, sancita e tutelata dal Trattato europeo sull’Unione economica e monetaria, avrebbe richiesto la predisposizione di un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza. Questa, come è stato più volte riconosciuto dalla Banca centrale europea, non è stata in alcun modo compromessa dall’assetto a partecipazione privata. In secondo luogo, lo Stato avrebbe dovuto indennizzare i partecipanti, i quali vantavano diritti legalmente protetti. La misura dell’indennizzo era incerta e ardua da determinare. Si è arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro; cfr. il documento Aggiornamento del valore delle quote di capitale della Banca d’Italia). In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe stata a carico del bilancio pubblico, cioè del contribuente.

Effetti sui bilanci dei partecipanti al capitale. Questa riforma non si risolve in un regalo alle banche?

La riforma ha due effetti fondamentali: il primo è quello di allargare la platea dei partecipanti al capitale della Banca, in modo che ciascuno ne detenga una quota piccola (non superiore al 3%, dice ora la legge; questo consente di eliminare qualsivoglia dubbio, anche formale, che una concentrazione di quote in capo a un singolo partecipante possa condizionare in qualche modo l’azione della banca centrale); il secondo è quello di risolvere definitivamente un’ambiguità presente nello statuto della Banca d’Italia fin dal 1948: i dividendi per i partecipanti erano fissati in un modo complicato che li legava alle riserve patrimoniali della Banca, come se tali riserve fossero di proprietà dei partecipanti stessi. Secondo il vecchio statuto, ai partecipanti potevano essere assegnati dividendi fino al 4% delle riserve complessive; queste erano pari a circa 15 miliardi nell’ultimo bilancio, quindi i partecipanti avrebbero potuto ricevere l'anno scorso fino a 600 milioni in dividendi, anche se ne hanno ottenuti solo 70, pari allo 0,5%. Ma le riserve nel patrimonio della Banca si accumulano anno dopo anno grazie ai proventi dell’attività classica di una banca centrale, il “battere moneta”. In quanto derivanti da una tipica attività di interesse pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca, diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati. Questo viene chiarito con la riforma.

Allo stesso tempo viene affrontato un altro problema posto dal vecchio statuto: la possibilità che i dividendi per i partecipanti, essendo fissati come quota delle riserve, potessero crescere indefinitamente in cifra nominale al crescere delle stesse. Dieci anni fa erano stati pagati dividendi per 45 milioni, lo scorso anno per 70, con una progressione potenzialmente infinita. Con la riforma, i dividendi sono ora una quota (non più del 6%) del capitale in senso stretto, il quale è espresso in cifra fissa (7,5 miliardi): quindi, i dividendi non potranno mai eccedere i 450 milioni. Quelli che saranno effettivamente pagati dipenderanno ovviamente ogni anno dalle condizioni del bilancio; tuttavia, l’intero esercizio è costruito in modo che vi sia equivalenza tra i flussi complessivi di dividendi calcolati con i criteri pre e post riforma.

Quanto all’osservazione da più parti avanzata che la rivalutazione delle quote aumenterebbe “artificialmente” i patrimoni delle banche partecipanti, va notato che essa consente di riportare il valore di bilancio della partecipazione su livelli più coerenti con la realtà dei fatti. Ai fini della valutazione dei rapporti di capitale che le banche devono rispettare come requisiti di vigilanza, il patrimonio cosiddetto “di migliore qualità” potrà in effetti aumentare in relazione alla disciplina del Regolamento europeo; da quest’anno, tali requisiti non sono più oggetto di norme nazionali; questo è coerente con il fatto che la riforma rimuove le caratteristiche di immobilizzo permanente delle quote. L’aumento sarebbe di circa 40 punti base per la media delle banche partecipanti oggi al capitale. Questo incremento non è un artificio,  ma  dipenderà  dall’applicazione  delle  norme contabili  internazionali.

Comunque, non potrà essere incluso nel capitale iniziale valido ai fini dell’asset quality review delle maggiori banche europee condotto dall’Eurosistema in vista del lancio del Meccanismo unico di vigilanza, in quanto a tal fine si applicano i filtri prudenziali previsti nelle norme della Banca d’Italia.

Effetti per lo Stato e i contribuenti. Chi tirerà fuori i 7,5 miliardi della rivalutazione? E lo Stato non finirà per rimetterci, incassando dalla Banca d’Italia meno soldi ogni anno?

I 7,5 miliardi della rivalutazione sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i diritti dei partecipanti. Il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione nel tempo. Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato.

Il timore che lo Stato comunque ci rimetterà, perché incasserà meno soldi ogni anno dalla Banca d’Italia, è infondato; nasce dal non prendere in considerazione tutte le variabili in gioco. La Banca d’Italia chiude ogni anno con un risultato d’esercizio che, in linea di principio, può essere sia positivo (profitto) sia negativo (perdita). Di fatto, negli ultimi decenni si è trattato sempre di un profitto, variabile a seconda degli anni. Il risultato discende dallo svolgimento delle attività istituzionali della Banca, che implicano costi e ricavi. Sull’utile lordo la Banca paga allo Stato innanzitutto le imposte. Dall’utile al netto delle imposte la Banca preleva i dividendi per i partecipanti, alimenta le riserve statutarie nella misura massima del 40 per cento e retrocede quel che residua allo Stato. Ad esempio, nel 2013, con riferimento all’esercizio 2012, la Banca ha versato allo Stato un totale di 3,4 miliardi, di cui 1,9 per imposte e 1,5 per retrocessione del residuo finale.

Che fa la riforma? Da un lato, è vero, essa implicherà presumibilmente per i partecipanti un dividendo accresciuto nell’immediato (ma non nel tempo) rispetto a quello percepito negli anni recenti; dall’altro lato, c’è una novità. Il vecchio statuto prevedeva, infatti, che il rendimento delle riserve statutarie venisse ogni anno riversato a incrementare le riserve stesse, per cui non concorreva alla formazione di quanto retrocesso allo Stato. Con il nuovo statuto questa alimentazione automatica delle riserve è stata eliminata, in modo da poter meglio commisurare l’entità delle riserve all’evoluzione dei rischi dell’Istituto. Ne potrà derivare un ampliamento dell’utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato. I risultati di una simulazione di quanto la Banca avrebbe dovuto riconoscere complessivamente allo Stato nei passati dieci anni se fosse stato in vigore il nuovo statuto, tenendo conto di entrambi gli effetti, indicano che si sarebbe potuto mantenere sostanzialmente invariato il flusso di risorse trasferito alle casse dello Stato.

Il possibile riacquisto delle quote da parte della Banca d’Italia. Se nessuno comprerà le quote in eccesso, il “riacquisto” da parte della Banca d’Italia non costituisce un trasferimento di soldi pubblici alle banche venditrici?

La legge di riforma considera il caso in cui il processo di redistribuzione e diffusione delle quote su una platea più ampia di partecipanti, che deve compiersi entro tre anni, incontri difficoltà: la Banca può acquistare essa stessa, temporaneamente, parte delle quote in mano ai partecipanti che ne posseggono più del limite del 3 per cento e non riescano a scendere in tempo utile al di sotto di tale limite. In ogni caso le quote non resterebbero in capo alla Banca ma sarebbero ricollocate al più presto sul mercato. La Banca d’Italia si limiterebbe quindi a esercitare un ruolo di intermediazione. Si tratta di una cautela che il legislatore ha voluto introdurre, ma si può confidare che la probabilità di ricorrere a questo meccanismo sia resa bassa da due ordini di considerazioni.

Anzitutto, in caso di riacquisto non solo sarebbero congelati i diritti di voto, ma i dividendi corrispondenti sarebbero riversati nei fondi di riserva, sui quali i partecipanti non hanno diritti. Inoltre, l’affermazione di un “mercato” per le quote della Banca d’Italia dipende dalla percezione della “qualità” dell’investimento. Ora, è presumibile che le quote avranno un rendimento non inferiore a quello di strumenti analoghi a parità di rischiosità (rendimento che dipende sostanzialmente dagli utili generati nelle attività investite, a fronte delle passività accese per svolgere le sue funzioni); inoltre, andrà considerato il valore simbolico dell’essere “partecipante al capitale della Banca d’Italia”. Il numero di potenziali acquirenti è alto, l’investimento di ciascuno può essere relativamente limitato. In ogni caso, il Consiglio Superiore della Banca vigilerà sul rispetto dei requisiti di onorabilità in capo agli esponenti aziendali e ai partecipanti dei soggetti acquirenti previsti dalla rilevante disciplina normativa e statutaria.