N. 815 - Un'analisi della decisione di partecipare al mercato del lavoro delle immigrate in Italia

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di Antonio Accetturo e Luigi Infanteluglio 2011

La componente straniera della forza lavoro fornisce un contributo essenziale alla crescita della maggior parte dei paesi avanzati. All'inizio degli anni 2000, 85 milioni di persone residenti nei paesi appartenenti all'OCSE erano nati all'estero, quasi tre volte il numero di immigrati presenti agli inizi degli anni sessanta.

L’incremento degli immigrati, in molte nazioni europee, pone interrogativi in merito alla loro integrazione economica, che costituisce una condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona di una piena occupazione. Malgrado l'integrazione della componente maschile non rappresenti un problema, i tassi di occupazione femminili sono spesso bassi e caratterizzati da una forte variabilità tra paesi di origine.

Nel lavoro vengono utilizzate le informazioni provenienti dalla banca dati della fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) su un campione rappresentativo di immigrati residenti in Lombardia e provenienti da nazioni in via di sviluppo o a forte pressione migratoria; questi dati mostrano infatti che esiste una forte differenza nei tassi di attività e di occupazione a seconda dei paesi di origine. Le donne provenienti dai paesi dell’Asia Centrale, del Nord Africa o del Vicino Oriente, infatti, hanno tassi di partecipazione nettamente più bassi rispetto a quelli delle immigrate di origine sudamericana o est-europea.

Due sono le possibili spiegazioni all'origine di questa evidenza. La prima è basata su un fattore culturale. Per talune nazionalità, una quota relativamente alta di immigrate può decidere di non partecipare al mercato del lavoro formale per ricoprire ruoli più tradizionali quali la cura della casa o l'educazione dei figli. La seconda spiegazione deriva, invece, dalle differenze tra professionalità offerte e le richieste del mercato del lavoro. In questo caso, le immigrate vorrebbero partecipare al mercato del lavoro, ma il loro capitale umano non soddisfa la domanda dei datori di lavoro.

Utilizzando i dati ISMU, la presente ricerca studia l’effetto della componente culturale sulla decisione delle donne di far parte della forza lavoro. Nel lavoro viene effettuata una stima econometrica del valore economico del tempo impiegato in attività domestiche (salari di riserva); la stima è ottenuta utilizzando i salari osservati per le lavoratrici immigrate e le caratteristiche individuali delle donne che hanno deciso di non partecipare al mercato del lavoro formale. La ricostruzione fa emergere una elevata variabilità nei salari di riserva tra le varie nazionalità. Nel lavoro si assume che elevati salari di riserva dovrebbero segnalare la rilevanza della spiegazione culturale per la non partecipazione al mercato del lavoro; secondo questa ipotesi le donne non partecipano al mercato del lavoro formale perché attribuiscono un valore molto elevato al tempo speso a casa. Salari di riserva bassi implicherebbero, invece, che l’esclusione dal mercato del lavoro sia involontaria e determinata da una scarsa domanda per le loro abilità professionali.

I risultati mostrano come a tassi di attività più bassi non si associano salari di riserva più elevati; questo suggerisce che la più contenuta partecipazione è determinata dalle differenze tra competenze offerte e le richieste del mercato del lavoro. Il risultato è robusto a diversi test di specificazione. In particolare, i differenziali nei salari di riserva tra i paesi non subiscono modifiche quando sono calcolati su sottocampioni distinti per modalità di ingresso in Italia (donne con permesso di soggiorno ottenuto per ricongiungimento familiare, o che presentano parenti già in Italia) oppure distinti per status legale.

Pubblicato nel 2013 in: IZA Journal of Migration, v. 2, 2, pp. 1-21