N. 700 - Le determinanti dell’intolleranza al debito pubblico. Il ruolo delle istituzioni politiche e finanziarie

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di Raffaela Giordano e Pietro Tommasinogennaio 2009

Alcuni Stati mostrano un’elevata propensione a non onorare il proprio debito pubblico; la storia della loro finanza pubblica è costellata di episodi di default, molti dei quali in corrispondenza di livelli relativamente bassi di indebitamento. Altri paesi riescono invece a sostenere livelli di indebitamento assai elevati. Per descrivere il primo caso, la letteratura economica ha introdotto il concetto di “intolleranza al debito” (debt intolerance).

Questo lavoro propone un modello teorico stilizzato che rende conto della sistematicità delle differenze osservate tra paesi, superando così i limiti delle spiegazioni finora proposte, basate sull’esistenza di equilibri multipli e crisi di fiducia che si auto-realizzano. L’analisi mostra che le istituzioni politiche e monetarie di un paese determinano il livello massimo di debito pubblico che esso può assumere senza che la sostenibilità del debito sia posta a rischio.

Il lavoro parte dalla considerazione che la scelta tra il ripudio del debito e il consolidamento delle finanze pubbliche (ottenuto attraverso una riduzione della spesa primaria e/o un aumento delle entrate) è, in ultima analisi, una scelta di carattere politico. I cittadini su cui principalmente graverebbero i costi di un consolidamento fiscale non sono gli stessi che sopporterebbero i costi di un default. Il governo tiene quindi conto delle implicazioni distributive delle varie opzioni a sua disposizione e sceglie quella che comporta meno sacrifici per il proprio elettorato.

Nel modello, la presenza di costi di accesso ai mercati finanziari implica che i titoli del debito pubblico sono detenuti soprattutto dai cittadini appartenenti alla classe media. I più ricchi preferiscono strumenti più sofisticati, mentre i più poveri detengono la loro ricchezza in forma liquida. Di conseguenza, una classe media ampia e politicamente influente aumenta il livello massimo di debito pubblico sostenibile, la “tolleranza” al debito.

Il lavoro analizza inoltre l’interazione strategica tra un governo con preferenze polarizzate, ossia che privilegia la parte più ricca o più povera della popolazione, e una banca centrale che ha preferenze meno estreme.

Il segmento più ricco dell’elettorato risente indirettamente degli effetti del default attraverso le conseguenze che questo ha sugli intermediari finanziari. La situazione patrimoniale di questi ultimi, a seguito della perdita di valore dei titoli pubblici, si deteriora e i cittadini più ricchi, che posseggono quote di proprietà di tali intermediari, sono danneggiati da un default. Pertanto, governi particolarmente attenti agli interessi dei più ricchi faranno  pressione sulla banca centrale affinché adotti una politica monetaria espansiva, aiutando in questo modo gli intermediari, anche a costo di un più alto tasso di inflazione. La presenza di una banca centrale indipendente e con preferenze meno estreme del governo, che quindi resisterebbe a tali pressioni, rende meno conveniente il default e quindi aumenta la “tolleranza” al debito.

In modo simmetrico, anche i poveri, pur non detenendo titoli del debito, possono essere danneggiati da un default se a questo si associa un aumento dei prezzi. Un governo relativamente più attento ai loro interessi sarà quindi più incline a ripudiare il debito se può evitare che la banca centrale intervenga con una politica monetaria espansiva a sostegno degli intermediari. Anche in questo caso la presenza di una banca centrale con preferenze meno estreme del governo, e sufficientemente indipendente, impedisce questa soluzione e aumenta la “tolleranza” al debito.

Pubblicato nel 2011 in: European Journal of Political Economy, v. 27, 3, pp. 471-484