N. 667 - Innovazione tecnologica, shock settoriali e cicli aggregati della città

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di Andrea R. Lamorgeseaprile 2008

Il ciclo di vita delle città ha ricevuto di recente particolare attenzione negli studi di economia urbana. Evidenza aneddotica mostra l’esistenza di un nesso fra l’andamento dell’attività economica locale e la diversificazione produttiva delle città, tanto nel nostro Paese (Genova, Taranto) quanto in altri Paesi europei (Glasgow, Manchester, Liverpool, Liegi). Per gli Stati Uniti, alcuni autori, tra cui Paul Krugman, forniscono numerosi esempi di città fortemente specializzate che negli ultimi 150 anni hanno sperimentato fasi di forte crescita e altrettanto brusco declino.

Questo lavoro si propone un’analisi del ciclo di vita delle città basata sul grado di specializzazione/diversificazione dei settori economici ivi operanti e sulle rispettive capacità di innovazione. Se le attività economiche della città sono poco diversificate ⎯ sono cioè caratterizzate da cicli molto correlati ⎯ l’andamento economico aggregato della città, e conseguentemente il suo ciclo di vita, ne seguono necessariamente i picchi e le cadute. Al contrario, la diversificazione produttiva rende possibile la ripartizione del rischio di shock avversi fra le varie attività economiche della città, consentendole di crescere secondo un sentiero più stabile nel tempo.

Rispetto a modelli analoghi già proposti in letteratura il lavoro introduce tre elementi di novità. In primo luogo il ciclo di vita della città è derivato endogenamente all’interno di un contesto di crescita schumpeteriana, in cui crescita e cicli sono determinati dall’interazione di tre mercati, il mercato dell’innovazione, quello dei prodotti e quello del lavoro. In secondo luogo si introduce un elemento di eterogeneità geografica per cui il mercato delle innovazioni e quello dei prodotti finiti sono globali, ossia ci sono più centri di produzione che competono tra loro, mentre nel mercato del lavoro la competizione è solo fra imprese locali. La conseguenza di questa ipotesi è che la rincorsa tecnologica e la concorrenza nel mercato dei prodotti finiti generano fluttuazioni della domanda locale di lavoro. A fronte di un’offerta di lavoro localmente rigida, ciò si ripercuote sui salari e, quindi, sul costo della ricerca.

Occorre notare che nel modello si tiene esplicitamente in considerazione la retroazione dell’andamento di salari e profitti sul consumo: maggiori profitti e più alti salari pagati da un’impresa in espansione generano un aumento di domanda per tutte le imprese dell’economia. Questo fenomeno per cui il comportamento di un’impresa genera effetti sulle altre imprese rappresenta un esempio di esternalità pecuniaria, in quanto la relazione fra le imprese è mediata dal mercato.

Infine, ed è questo il terzo elemento di novità, il modello contempla un’ulteriore esternalità di tipo tecnologico, che dipende dalla capacità ⎯ specifica di ciascuna impresa ⎯ di avvantaggiarsi dello stock di conoscenze complessivamente accumulato nell’economia. Questa fonte di eterogeneità fra imprese consente di mettere in esplicita relazione la diversificazione produttiva all’interno della città con la distribuzione della capacità delle imprese di avvantaggiarsi dello stock di conoscenza comune. Si dimostra che città più diversificate riescono a ottenere un flusso di innovazioni più costante nel tempo e a crescere in maniera più stabile.

Un’estensione del modello consente di replicare due importanti fatti stilizzati, la forte specializzazione delle città osservata nella realtà e il legame fra specializzazione e ciclo di vita, per cui le città dove si produce usando tecnologie di frontiera sono più specializzate, mentre le città dove si produce con tecnologie più mature tendono a essere meno specializzate. Tale risultato può essere ottenuto introducendo nel modello la possibilità di accumulare esperienza nella ricerca, per cui l’esito favorevole dell’attività di ricerca non dipende esclusivamente dal numero di ricercatori impiegati ma anche dall’esperienza accumulata. Si introduce in tal modo una scelta intertemporale tra investire in ricerca (e quindi accumulare esperienza) oggi o sostenere costi di ricerca più elevati domani. In tale variante del modello, coerentemente con l’evidenza empirica (si pensi, per esempio, a Silicon Valley), i settori di frontiera agli albori dello sviluppo tecnologico tendono a impiegare più ricercatori e a pagare salari più elevati.

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